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Venerdì 28 Aprile 2017, Fin dalla nascita dei manicomi criminali, teorizzati nel diciannovesimo secolo, l’opinione pubblica e la comunità scientifica hanno sempre manifestato opinioni estremamente variegate sul trattamento destinato all’infermo di mente autore di reato, giudicato non imputabile dall’ordinamento penale e pertanto non soggetto all’irrogazione delle pene, ma portatore, talvolta, di una pericolosità sociale da arginare mediante l’applicazione di una misura di sicurezza. In un ambito così delicato e spinoso, giuristi, psichiatri, politici e società civile difficilmente sono concordi sulla migliore soluzione al secolare problema del bilanciamento tra necessità terapeutiche e riabilitative del malato psichiatrico ed esigenze di tutela della collettività dalla sua pericolosità. Con la legge n.81 del 2014 il legislatore italiano sancisce la definitiva chiusura agli ospedali psichiatrici giudiziari, della quale molti esponenti politici e della comunità medica si sono mostrati soddisfatti perché ha soppresso l’ultimo e inaccettabile residuo dell’istituzione manicomiale che non offriva cura né riabilitazione al paziente psichiatrico. Tuttavia, si sono alzate anche numerose voci di dissenso che hanno aspramente criticato la riforma perché, rimettendo in libertà pericolosi criminali, mina la sicurezza pubblica, interesse pubblico primario e principale oggetto di tutela da parte dello Stato.