Un popolo stremato in fuga dalla Somalia

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Categoria: dal Mondo | Lunedì 06 Febbraio 2017, Le mosche sciamano nel campo rifugiati che accoglie le famiglie yemenite e il calore rende l’aria, già satura di incertezze e miseria, ancora più irrespirabile; gli uomini e le donne, privati del proprio presente, si trascinano come ombre sospese in un limbo del contingente, tra polvere e piccoli bracieri su cui vengono scaldate poche manciate di riso. «Io sono un rifugiato e non so quale sarà la mia vita», spiega Abdel Fatih Ahmed Mahmud, di venticinque anni. «Non ho più nulla, la mia casa è stata distrutta e i miei parenti uccisi; sono scappato, ma qua non c’è niente. Mancano cibo e assistenza medica. E poi c’è la guerra. Io voglio raggiungere l’Europa; non ho paura né del mare né del deserto: farò di tutto per arrivare in Germania». Il ragazzo mostra le ferite provocate dalle schegge durante un bombardamento e racconta anche di aver perso l’udito all’orecchio sinistro. La sua storia è gemella di quella di Ahmed Said, anche lui ventenne: «Ho attraversato il mare e adesso voglio partire per arrivare in Gran Bretagna, dove vive mio cugino. Sapevamo, quando siamo salpati, che in Somalia c’è la guerra, ma era la sola possibilità che avevamo per non morire subito».

Il miraggio dell’Occidente accomuna tutti i rifugiati, e il loro confidare ad alta voce il desiderio di raggiungerlo un messaggio d’aiuto racchiuso in bottiglia e lanciato in un mare di utopica fiducia nel mondo. Lo stesso mondo che oggi li rifiuta, ne ha paura e li etichetta come terroristi.

La Somalia oggi è allo stesso tempo terra di sbarchi e di fughe. Oltre ai civili in arrivo dallo Yemen, ci sono un milione di cittadini somali che hanno abbandonato il Paese e un altro milione sono i rifugiati interni. Lasciato alle spalle il campo che accoglie le famiglie yemenite, percorso il quartiere di Abdel Aziz, puntellato dalle case sventrate dai colpi di Rpg, superati i check point delle truppe governative e quelli delle milizie che imperversano nelle strade della capitale, compare la tendopoli Onat, dove vivono più di 700 famiglie somale. Hassan Omar Ahmet è un maestro coranico, che ha creato una madrassa tra le lamiere, dove insegna i precetti dell’Islam a decine di bambini perché, come spiega lui stesso, «in un Paese dove tutto è stato distrutto, anche la fede deve essere insegnata, partendo dalle fondamenta, alle nuove generazioni».

È scappato da un villaggio del nord, quando sono arrivati gli jihadisti di Al Shabaab e oggi non ha niente, se non una stuoia su cui dormire e un Corano con cui educare i bambini ai veri valori della religione. «Conosco alcuni ragazzi che sono scappati prima in Kenya e poi, da lì, fino alla Libia. C’è chi dice che servono più di 3.000 dollari per compiere tutto il viaggio. Non li ho e quindi non penso più ad andarmene, ma ad aiutare i giovani del campo». Testimone del ventennale conflitto somalo è anche Alima, che da venticinque anni vive ad Onat; è stata tra i primi ad arrivare quando la città venne travolta dallo scontro tra i signori della guerra. «Ho vissuto tutte le fasi del conflitto ma il periodo peggiore è subentrato con l’arrivo di Al Shabaab. Mi ricordo le incursioni nel campo, i bambini rapiti, le donne abusate e la violenza in ogni dove». Le parole dell’anziana donna, pronunciate da sotto un niqab arancione, anticipano l’eco di una raffica di kalashnikov. E poi, ancora, spari a rincorrersi poco distanti dal suo alloggio. I ragazzi e gli uomini scappano nei vicoli del campo cercando un rifugio, mentre la guerra con prepotenza conferma la sua presenza.

In Somalia oggi perdura lo scontro tra Al Shabaab e il contingente dell’Unione Africana, appoggiato dalle truppe dell’esercito somalo. Se è evidente che il conflitto rispetto al passato ha calato d’ intensità, allo stesso tempo però continua a incendiare la nazione e a destabilizzarla. I jihadisti infatti stanno affrontando una crisi interna e numerose sono le perdite subite negli ultimi anni, oltre alle continue ritirate nell’entroterra del Paese.

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