Nel silenzio di Aung San Suu kyi pulizia etnica dei Rohingya

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Categoria: dal Mondo | Martedì 03 Gennaio 2017, È passata dal predicare il rispetto dei diritti umani a quello della legge. Si è mostrata senza paura, sacrificando la sua famiglia, per sfidare una feroce dittatura. E ora che è al potere neanche menziona il nome di una minoranza a rischio di pulizia etnica. Mentre la tragedia umanitaria dei Rohingya continua senza una soluzione in vista, Aung San Suu Kyi si gioca la sua reputazione. Conciliare il mito dell’icona della dissidenza non violenta con l’immagine di leader fredda, calcolatrice e di fatto complice del nazionalismo islamofobo che pervade oggi la Birmania, si fa ogni giorno più difficile.

I campi profughi
Da plenipotenziaria del governo di Htin Kyaw, trionfando alle elezioni del novembre 2015, Suu Kyi ha ereditato l’annosa questione dei Rohingya. Già nel 2012, violenze settarie reciproche diventate pogrom anti-musulmani causarono oltre 200 morti nello stato occidentale del Rakhine, costringendo 140mila Rohingya in squallidi campi di sfollati. Per quattro anni, la situazione sul territorio non è mutata, mentre a migliaia morivano su carrette del mare nel disperato tentativo di emigrare. Ma negli ultimi tre mesi, la violenza è esplosa di nuovo. In seguito ad attacchi di «terroristi» contro la polizia di frontiera, l’esercito ha lanciato un’offensiva che ha causato almeno 86 morti e costretto 27mila Rohingya a scappare in Bangladesh.

Non entra nessuno
Il nord del Rakhine è stato sigillato: accesso vietato a giornalisti e operatori umanitari. Human Rights Watch ha diffuso foto satellitari, che mostrano interi villaggi bruciati, e le denunce di violenze nei rastrellamenti si sono moltiplicate. Incalzata dagli appelli internazionali, Suu Kyi è rimata in silenzio. Non ha mai pronunciato il nome «Rohingya», ripetendo vuoti proclami su «legge e ordine» e apparendo in stizzita difficoltà nelle rare interviste concesse.

La frustrazione dei suoi sostenitori stranieri è sfociata pochi giorni fa in una lettera all’Onu da parte di 23 leader mondiali, tra cui diversi Nobel per la Pace che, evocando lo spettro di genocidi passati, hanno criticato Suu Kyi per non aver preso «nessuna iniziativa per assicurare pieni diritti di cittadinanza per i Rohingya». Molti dei quali sono presenti da generazioni nell’area, come risultato dell’incrocio di popolazioni sotto i colonizzatori britannici. Il problema è che la stragrande maggioranza dei birmani considera tale idea un anatema. I buddisti del Rakhine vedono il sorpasso demografico dei Rohingya come un pericolo mortale, e l’intera Birmania si sente un muro difensivo contro l’avanzata dell’Islam. Il recente rapporto dell’International Crisis Group, che segnala una radicalizzazione tra i Rohingya e l’emergere di un gruppo di militanti finanziato da Pakistan e Arabia Saudita, ha rafforzato tali paure. Riconoscere come cittadini il milione di «bengalesi», come li chiamano i birmani considerandoli immigrati clandestini, sarebbe politicamente suicida.

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