CHI HA TORTURATO AWIS HIMAN?

Storie dalla Cisgiordania

Coloni e forze di sicurezza in una notte qualsiasi nella West Bank

di Lavinia Marchetti

C’è un ragazzo palestinese di diciotto anni che scende nel wadi, il vallone sotto il villaggio, vicino a casa, nel villaggio di Kharbatha Bani Harith, a nord ovest di Ramallah. Ha un nome che i giornali scrivono in modi leggermente diversi, segno di una vita trattata come se fosse un mero dettaglio. Qui lo chiamerò Awis Himan, come in una delle versioni usate da Haaretz, perché almeno resti un riferimento stabile.

Secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano, che a sua volta riprende giornali arabi, Awis entra nel vallone e lì lo raggiunge un gruppo di coloni usciti da un avamposto vicino. Lo circondano, lo colpiscono e lo trascinano fino all’avamposto illegale costruito sopra terre palestinesi. Il pestaggio continua finché arrivano i riservisti della Area Defense Division e il responsabile della sicurezza dell’avamposto. A quel punto il ragazzo è già a terra. Sanguina. Fa fatica a reggersi. Verrà poi affidato ai soldati, trasferito alla custodia dello Shin Bet, interrogato da un funzionario che lui descrive come ufficiale di intelligence. Il mattino seguente Awis si ritrova in ospedale, con lesioni al volto e alle mani, contusioni diffuse all’addome, poi dimesso senza accuse formali. (Matan Golan, «Clear Signs of Torture», Haaretz, 9 dicembre 2025).

Il padre, intervistato dal quotidiano panarabo Asharq Al Awsat, racconta ore di aggressione e sequestro. Coloni e soldati lo tengono legato, con polsi e caviglie immobilizzati, gli coprono gli occhi e lo trascinano lungo il terreno. Quando la famiglia riesce finalmente a rivederlo, il ragazzo porta sul corpo lividi e abrasioni. Gonfiore sul volto e nei punti in cui le corde gli hanno lacerato la pelle. Il padre parla di «segni chiari di tortura» e di uno stato emotivo quasi muto. La casa riceve indietro un figlio vivo, ma privo di parole per nominare ciò che ha attraversato.

La versione ufficiale dell’esercito arriva con il consueto comunicato. I soldati sostengono di avere ricevuto una segnalazione su un «palestinese sospetto» che si avvicinava ai coloni intonando slogan sui martiri e dichiarando l’intenzione di compiere un attacco. I riservisti, sempre in questa ricostruzione, intimano al ragazzo di arretrare. Sparano colpi in aria. Lo bloccano a terra e attendono l’arrivo di altre squadre che lo inviano alla Shin Bet per l’interrogatorio. Sempre secondo la versione militare, le lesioni di Awis deriverebbero da una «caduta sulle rocce». L’esercito annuncia una indagine interna sulla condotta dei riservisti che come sempre si concluderà con una “legittima difesa”.

Questa cronaca resta affiancata ad altre. In resoconti recenti appaiono scene quasi identiche. L’agenzia Anadolu, ad esempio, ha raccolto nelle stesse ore la testimonianza di un altro palestinese aggredito in area Ramallah da coloni di un avamposto, picchiato e trascinato per metri, poi passato a soldati e infine lasciato in ospedale con contusioni diffuse. Cambia l’età, cambia il nome. Resta intatto il copione. Avamposto illegale. Milizia di residenti armati. Intervento tardivo dell’esercito. Passaggio alla sicurezza interna. Uscita dall’ospedale senza alcuna imputazione.

Gli avamposti di Cisgiordania servono a questo. Fissano sul terreno una presenza che sfida il diritto internazionale, trasformano terre agricole e vallate in zona di caccia per gruppi di residenti armati, funzionando da cerniera tra la violenza privata e l’autorità statale. Il contadino palestinese che scende nel wadi di casa viene percepito come intruso nel raggio di sorveglianza dell’avamposto. Il colono che chiama l’esercito si sente il “guardiano” di avamposto e patria. Il soldato che arriva e trova un ragazzo già pestato si muove dentro questo paradigma, in cui la presenza che va protetta coincide con il villaggio di coloni, anziché chi abita da generazioni i terreni circostanti.

L’ingresso dello Shin Bet nella scena rafforza questa lettura. L’agenzia interroga un diciottenne che arriva già martoriato da ore di percosse. Se esistesse un progetto reale di attacco, la macchina repressiva punterebbe a costruire un fascicolo penale, con prove e imputazioni precise. Qui invece il ragazzo esce dall’interrogatorio e rientra in ospedale, senza capi di accusa. Ciò che resta è un corpo devastato e un villaggio che apprende il messaggio, insomma i metodi mafiosi sono lampanti. Una persona qualunque può sparire per una notte nelle mani congiunte di coloni e forze armate, con alle spalle i servizi di sicurezza, poi tornare a casa con segni di violenza e nessuna tutela effettiva.

Awis Himan rischia di restare un nome in un breve articolo, poi una riga in un rapporto sui coloni violenti, fino a restare solo come un mero residuo nelle conversazioni di famiglia. Scrivo questo testo perché le domande essenziali restano aperte. Chi ha permesso che coloni armati agissero come squadra di sequestro vicino a un villaggio palestinese? Quale ufficiale ha deciso il passaggio del ragazzo allo Shin Bet invece di condurlo davanti a un giudice? Quanta responsabilità porta uno Stato che rilascia un diciottenne con il volto gonfio, pieno di lividi senza nessuna accusa formale? La risposta a queste domande oltrepassa Kharbatha Bani Harith. Vogliamo davvero essere complici, come Stato, di questa gente? Una domanda al nostro governo.
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